LA SARDEGNA CHE NON SI ARRENDE

Nelle zone interne ci sono ancora usi e costumi che possono essere utilizzati proficuamente a livello turistico

 

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Nell’era del computer e della tecnologia avanzata si tende sempre a cogliere gli aspetti più frivoli e banali di un popolo  per portare quest’ultimo all’attenzione del mondo. La Sardegna, isola antica fra le più antiche, ha avuto bisogno dell’Aga Khan e dei soggiorni mondani di principi e dei vari potenti della terra nella Costa Smeralda per avere uno spazio di notorietà a livello planetario.

Eppure ci sono aspetti e particolari rimasti inalterati per secoli e millenni, che sopravvivono grazie al profondo attaccamento alle tradizioni del mondo agro-pastorale. L’estate è ormai inoltrata e tutti più o meno tendono a programmare le vacanze dedicando ampi spazi di tempo al mare e alle discoteche. Nell’interno della Sardegna si possono scoprire usi e costumi, le cui origini si perdono nella notte dei tempi. Vedere per credere.

Ad un osservatore attento non possono, infatti, sfuggire le parole in lingua sarda, pronunciate in stile arcaico, ma con garbo e convincenti: “ben’ennidos a cuile”. Questa frase, assai ricorrente tra i nostri pastori che ricevono degli ospiti nei loro ovili, ha un significato emblematico ma esauriente sulla antica ed omerica ospitalità dei sardi.

E’  il benvenuto che si dà agli amici ed agli amici degli amici, che decidono  di trascorrere una giornata diversa a contatto diretto con la natura e con chi giornalmente opera e lavora in ambienti lontani dalla cosiddetta civiltà dell’asfalto. La Barbagia, zona dei barbari, come i romani definivano i territori, le cui popolazioni erano poco inclini a sopportare il loro dominio, ha un modo particolare di ricevere gli amici, con pochi mezzi ma con un grande cuore.Sono sempre più frequenti i gruppi di visitatori che rinunciano ai pranzi in ristorante per gustare il maialetto e l’agnello arrosto e altre leccornie della terra sarda in stazzi resi più funzionali, che fino a qualche anno fa ospitavano le pecore e i loro custodi.

Non sono rare le comitive guidate da religiosi che colgono l’occasione per rinfrancarsi lo spirito con canti e preghiere che culminano con la celebrazione della Santa Messa in compagnia degli stessi pastori e le rispettive famiglie.

“Su cuile” (l’ovile) è un qualcosa di molto caro e le persone che vengono invitate sul posto e che conoscono il valore attribuito ad esso, si sentono onorate  di poter vedere, verificare e valutare una dimensione diversa in una atmosfera quasi magica, certamente meno opprimente di quella delle grandi città.

Il pastore sardo è il vero erede e portatore di quella genuinità mancante in altre società, dove il più delle volte predominano modi e comportamenti lontani da un’etica che ci riporta a  origini lontane. La fama di questo tipo di ospitalità ha varcato ormai il Tirreno ed ha raggiunto oltre Atlantico apprezzamenti tali da definire la Sardegna fra le regioni più ospitali del mondo. Il turista, soprattutto quello che ha un grado di cultura elevato, preferisce l’incontro con la “genuina razza sarda” e rinuncia talvolta ai moderni comfort esistenti negli alberghi megalitici, legati spesso a un consumismo sfrenato alla Mc Donalds, dal quale il cittadino lungimirante tende a sfuggire.

Si parla tanto di movimento turistico e si sfornano cifre sul soggiorno di stranieri in questo o in quel paese, ignorando totalmente gli ospiti, sempre più numerosi, che si riversano in ogni stagione in zone remote e affascinanti della nostra isola, dove il “cuile” costituisce e rappresenta il fulcro di una civiltà antica, che ci riporta indietro nei secoli e millenni, quando la popolazione era dedita alle attività agro-pastorali. Dagli alberghi dislocati nelle varie località della Sardegna, intere comitive si dirigono spesso nei “cuiles” e gli ospiti osservano attentamente la gentilezza e il buon cuore con cui vengono ricevuti dai nostri pastori.

Tra la gentilezza di occasione e di mestiere dei camerieri dell’albergo e la rozza ospitalità esiste senz’altro una differenza abissale, ma non per questo meno gradita. I pastori non avranno certamente frequentato alcuna scuola di “bon ton”, ma sanno essere senza dubbio interessanti in modi e comportamenti dai quali molti cittadini cosiddetti civili, politici inclusi, hanno molto da imparare.

Un particolare di rilievo eccezionale è la classica bevuta di vino d’uva, non artefatto, che si offre a “sos istranzos” (agli ospiti). Un tempo si offriva  in un solo recipiente (bottiglia di zucca), che veniva passato di mano in mano. In questo gesto che sembrerebbe contrastare con le più elementari norme igieniche si nasconde un rito antico, una usanza di tutto rispetto, un atto che rappresenta un simbolo di fratellanza e di amicizia spontanea e disinteressata. Una tradizione gelosamente custodita per millenni adottata persino dal Cristianesimo fin dalle sue origini nelle funzioni religiose.

Nel “cuile”, anche se in maniera diversa dal passato, tutti bevono dallo stesso calice e allo stesso piatto attingono “su casu” (il formaggio) e “su pane carasau” (carta da musica), come fratelli di una famiglia numerosa o di una comunità cristiana d’altri tempi. L’ospitalità è quindi ancora sacra e inviolabile, laddove anche i romani hanno avuto filo da torcere.

La Barbagia anche se ancora priva di strutture turistiche pubbliche di un certo rilievo, è in grado di ricevere gli ospiti con la massima cordialità e secondo l’antica usanza. Quando poi viene la sera e gli agnelli e i porchetti sono scomparsi dalle rocce levigate dal vento ed usate come tavoli, iniziano con fare commosso i brindisi di saluto e il “thank you” si mescola col “a menzus biere” (arrivederci in migliori occasioni).

In conclusione, “ su cuile” è l’allegro luogo in cui è possibile porgere un cordiale “welcome” all’insegna della sacra ospitalità barbaricina.

 

                                                                  

                                                                   

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Fotografie

In alto il mitico gruppo "Tenores silanesos", a seguire in basso, il murales dedicato al musicista silanese del ballo sardo Tziu Nanneddu e il nuraghe di Orolio, una delle più preziose testimonianze dell'antica civiltà dei sardi.

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